Raccolte

TRASCRIZIONI










SULL’IRNO


  Il cigolio dello sportello che si richiuse fu impercettibile lamento in un vortice di silenzio; l’asettica cadenza delle ultime parole di lui si era come ghiacciata ed era freddo improvviso sottile e pungente, senza eco di suono. Lei, ombra del suo coraggio, ignota a sé e alla sua meta, lo guardò ancora attendendo che il ritmo ineguale del suo respiro potesse richiamarlo al di qua del limite invalicabile che ella stessa aveva tracciato, complici i troppi chilometri, i troppi dubbi, i troppi anni. Ma i suoi occhi cattivi di necessaria dignità non le concessero nulla; scomparve in un attimo con la sua auto color della nebbia come ingoiato da un abisso inatteso, come se una biblica potenza avesse separato per lui le metalliche onde  di quel mezzogiorno, come se la muraglia minacciosa e incombente del curvone si fosse disgregata inerme al suo dolente passare.
  Il traffico ronfava pigro quando lei riprese a seminare passi che non sentiva; un Irno scarno e solenne si incurvava nel greto di cemento increspato da bagliori difformi: era la pellicola ormai vuota che ancora scorreva sulle spalle di spettatori radi.   Lei non era più che un morso crudele nel cuore di sé, un dolore che nuotava subdolo nel sangue suo stesso raggiungendo ogni dove; lei era il dolore, pressante, reale, e incapace a sentirsi. Andava come il fiume inconsapevole verso il mare, circondata dal vuoto assoluto in cui le ridde di gabbiani e colombi, il freddo ceruleo del cielo, il profumo dolce della panetteria non avevano odore né suono o colore; la strada era un binario che la portava, un circuito che se si fosse interrotto l’avrebbe lasciata là, tra cose insensate povera cosa.  Il pensiero non le apparteneva più, come la croce sfuggente sui gradini di San Damiano, come le dita sull’ultimo biglietto.
  Il treno soffiava un alito greve sulla campagna inerpicandosi verso il ritorno; sbigottito d’indifferenza l’interno premeva sul finestrino che si allargava man mano fino a divenire vetrata  nello studio di lui. Da quella vetrata un giardino spalancava primavere ed autunni primizie preziose, si fingeva bosco incupito, gridava sprazzi di luce imprevista e la contendeva alla voce di Gino, al suo tono imbronciato e forte, alle sue madonne, ai suoi marmi. Solo in fondo a quel bosco, dove il c’era una volta non è mai un anno e le fanciulle si lasciano sempre rapire, i suoi occhi sarebbero potuti appartenerle, le sue mani sfiorarla senza remora alcuna.
  Ma la campagna precipitava a valle e il resistere del treno era un gioco di prestigio, il giorno una non voluta illusione e il vivere di lei solo un affronto, seppure qualcuno avesse potuto dirle che il non vissuto è l’unico eterno.







IL VESTITO ROSSO

Dentro la stanza c’era un disordine statico e senza tempo, una specie di ordine imperfetto che attendeva da sempre la mano di un criterio che lo definisse una volta per tutte in una cosa o nell’altra. Lo stesso senso di sospensione coinvolgeva la luce sfiorata di un pomeriggio avanzato in una sera che tardava a venire, il grigio opaco del cielo schiantato da vene rade di quasi tramonto, il fascio chiaro che dal lucernario invadeva l’ombra dentro la quale le scatole sovrapposte prendevano un’aria sinistra da remota periferia.
  Lisa sedette al bordo del letto senza accendere la lampada, si accucciò nei suoi pensieri cercando di renderseli amici, stringendoseli addosso come una coperta che di notte ti fa un buio conosciuto e ti protegge dal buio più ignoto. Se ne stava sospesa anche lei, lieve come un pulviscolo, plumbea come un silenzio, ma un silenzio di quelli in cui le parole affogate ritornano a galla gonfie e livide a ricordarti che dovevano vivere ed esserci, proprio per te che ora non puoi più decifrarle. Guardava i lastroni del pavimento che parevano ispessirsi nell’ombra e farsi sottili e diafani laddove il cielo si proiettava attraverso il varco nel tetto; sotto il lucernario il riquadro si faceva di ghiaccio e a poco a poco si scioglieva con il lampo degli occhi e si faceva d’acqua, e poi d’un vortice profondo che risucchiava e acqua e aria per lasciare un vuoto da cui giungeva un’eco suadente e indefinito. Scivolò piano dal letto Lisa; seduta per terra provò ad affacciarsi appigliandosi al buio, al silenzio, alle parole affogate e presenti, alle scatole in pila; ma quel vuoto parlava, proveniva dal fondo un richiamo, una specie di tiepido suono, un respiro diverso dal suo che si condensava in quel freddo e veniva ingoiato in quel vuoto. Seduta sul margine Lisa lasciò ciondolare giù le gambe come un bambino abbracciato a una ringhiera, ma la ringhiera non c’era e sarebbe caduta immemore come il silenzio se la stanza d’ombra rapace  non avesse invidiato in extremis l’orlo rosso del suo vestito.





IL DUBBIO

Guardò il cielo per caso; era azzurro, terso, intatto, artificiale come l’allegria delle feste, come il vestito nuovo, appeso nell’armadio, che è tuo eppure non ti appartiene, non ha le tue forme, il tuo profumo. Così era il cielo quel giorno, ostentatamente sereno, così sereno che a Silvia incuteva paura come tutte le cose troppo giuste, troppo perfette, come la felicità in cui ella cercava sempre un pretesto per soffrire, una piccola cosa storta che la rassicurasse, che le dicesse che non aveva da temere di peggio. Entrò in macchina e un tepore più intenso l’avvolse; se lo godette fino in fondo. Spallandosi sul sedile lasciò andare la borsa al suo fianco mentre pensava a quel maggio inoltrato finora così avaro di sole. Girò la chiave; il motore frullò in sordina come un battito d’ali, come un colpo di vento improvviso; aveva voglia di rientrare e non ne aveva voglia, un torpore sottile le lambiva i pensieri e la smaterializzava a se stessa lasciandole il dubbio di non esistere.               
L’anello tra le sue dita luccicò sotto il sole abbagliando la polvere sul vetro; luccicò ancora sul volante di pece mentre la mano accarezzava le curve di quella strada quasi vuota, quasi vuota proprio oggi che Silvia aveva voglia di smarrirsi, di perdersi in un traffico lento e ronzante, di avere una scusa da addurre a se stessa per fare tardi, un momento indolente e vuoto ma suo, soltanto per sé. L’auto si fermò davanti all’insegna gialla di uno sconosciuto alimentari e Silvia esitò un minuto prima di entrare, sconcertata da una novità inattesa, da quel piccolo mondo nuovo che le si era parato innanzi per caso. La sua voce ferma riempì la stanza chiedendo una confezione di surgelati; la commessa tentennò un solo attimo mentre il padrone si precipitò a servirla con un sorriso. Nello sguardo di lui si accorse di essere bella quel mattino, con la gonna che non metteva quasi mai, ma non ci fece caso; piuttosto lo guardò: il suo viso le pareva abbastanza familiare, ma non fece caso neanche a questo. Strano. Di solito odiava non ricordarsi delle persone che incontrava, pensare che tanti passavano nella sua vita anche solo per un istante e poi erano destinati a perdersi nell’oblio del nulla. E la sua vita? La sua vita non era fatta di istanti? Uscendo si specchiò nella vetrina e vide sul riflesso argentato del vetro la sua bella ombra grigio scuro che si muoveva e camminava come lei. E lei? Di chi o di cosa era soltanto l’ombra? Nuovamente ebbe il dubbio di non esistere. Ripartì. Ma perché aveva scelto un’auto rossa? E un vestito rosa? L’aria inondata di luce la risucchiava e Silvia si lasciava andare nel gorgo; ma stonava il colore squillante con lo sfondo polvere di quella giornata e le impediva di confondersi; e il non confondersi la infastidiva come i tacchi alti sotto i blue jeans, e le piaceva come lo sfavillio dell’anello sul volante, e la dannava come il desiderio di bere, e la stupiva come il silenzio del traffico assente.
Cercò le chiavi dentro la borsa senza fretta e il non trovarle non le diede il solito tormento, non temette di averle perdute; frugava in se stessa e non trovava nulla o forse non sapeva cosa cercare e vagava con la mano nell’inconsapevole attesa di ricordare al tatto cosa davvero volesse.
Aprì finalmente. La piccola ombra dietro il vetro della porta allungò la mano alla maniglia. “Mamma!” gridò. Il dubbio svanì.





PIOGGIA

Un momento fa era tutto sereno. Ora il cielo cadeva rifratto sul cotto del cortile lasciando lassù un grigio di voragine e uno spavento di rami fragili come mani disperate tra i capelli del giorno.La pioggia mitragliava la strada; fuggivano tutti d’un panico senza ragione verso gli angoli, gli angoli sicuri, gli angoli senza storia, quelli senza poesia, dove si resta immobili rimandando la meta, differendo ad un altro destino l’approdo. Non si è vivi negli angoli, nemmeno d’estate, sui gradini seduti a guardare ogni goccia, dei miliardi di gocce ogni singola goccia morire sparata lì in terra e rialzarsi in obliquo, rimbalzare specchiata in se stessa per sparire e restare. La pioggia fremeva sgretolando la polvere in strada, e avanzava più viva e gagliarda di quel suo fragoroso morire; e di vetro sottile pareva ogni cosa, ma era solo uno squillo di luce. E negli angoli no; non restava che l’afa, lo sgomento, il grigiore ed un tragico e vile rodìo di polvere innocuo.
Ad un tratto si alzò; da quegli angoli, da quei gradini si spinse più in là dove un buco di cielo era cielo, e il silenzio silenzio, e la vita era vita. La pioggia era intensa e inquieta, le tende ammainate ansimavano nella tempesta, i platani moltiplicavano all’infinito lo scroscio con quel loro umano tremare di voce, un cortile di specchio sbiadiva i confini e si allargava fino a perdersi mentre il vestito nero di lei cominciava a farsi attonito e immobile come i suoi capelli pieni di pioggia che cadevano giù in lucenti rigagnoli scuri. Il suo abito zuppo adesso era lei, e lei era la pioggia, e la pioggia era cielo, era terra, era tutto. Su quel vetro sottile di mondo dagli angoli afosi scivolavano inerti occhi pavidi, mentre lei che era pioggia stava bene così.









La cartella "Trascrizioni" , edita  a dicembre 2010 dal Centro di produzione culturale PAN e costituita da quattro racconti inediti della scrittrice Anna R. G. Rivelli e da cinque riproduzioni in stampa dell'artista Giovanni Cafarelli , è stata tirata in n.100 copie a ciascuna delle quali è allegata una miniatura in esemplare unico di cm 10 x 10



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IL COSMO DI LASCAUX





















"Il cosmo di Lascaux": raccolta di n.30 dipinti su carta cm 20 x 20, è stata prodotta nel 2010  



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PAESAGGENJAMBEMENT






















"Paesaggenjambement": raccolta di n.20 dipinti su carta cm 20 x 20, è stata prodotta nel 2010  


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SUONI DA UN ALTRO UNIVERSO


























"Suoni da un altro universo": raccolta di n.20 dipinti su carta cm 20 x 20, è stata prodotta nel 2009  


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RITI D'OMBRE























"Riti d'ombre": raccolta di n.20 dipinti su carta cm 20 x 20, è stata prodotta nel 2009  


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BISEGNO





















"Bisegno": raccolta di n.30 dipinti su carta cm 20 x 20, è stata prodotta nel 2009  


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ESTIVA


Il cielo è un traffico grigio

L’infinito non sembra tanto poi infinito visto da qui, incastrato in un rettangolo di finestra, imprigionato dalla cubatura slavata del padiglione di fronte, dai suoi vuoti e i suoi pieni che si rincorrono e si contraddicono, dalle ombre accigliate dei suoi muri giallini spenti e malati. Il cielo è un traffico grigio di nubi lente spostate dal vento, è lo stillicidio di un autunno neonato eppure immane già, gonfio di afa e di pioggia inesplosa. L’infinito da qui è una macchia di gesso, un grumo di polvere in volo o forse ancora una spina sottile di luce conficcata dritta a fondo nel cuore.

                      Anna R. G. Rivelli



















"Estiva", raccolta di n.40 dipinti su carta cm 20 x 20, è stata prodotta nel mese di luglio 2008 a Roseto Capo Spulico (CS)



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IL MAGGIO














"Il Maggio", raccolta di n.3 dipinti su carta cm 30 x 30, è stata prodotta nel 2007



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PERSIANE



















"Persiane", raccolta di n.15 dipinti su carta cm 50 x 30, è stata prodotta nel 1996



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